Cooperazione e crisi: tre miti da sfatare
Carlo Borzaga
Il caso del consorzio delle cooperative di consumo trentine, la cui decisione di aprire una procedura di mobilità per circa 130 addetti ha suscitato dibattiti accesi a livello locale, conferma un’altra volta che per avviare un dibattito costruttivo è necessario partire dai fatti.
Nel dibattito che è seguito alla decisione del Sait, consorzio delle cooperative di consumo trentine di avviare un piano di riorganizzazione aziendale che prevede 130 esuberi su 650 dipendenti sono state fatte diverse affermazioni che finiscono per interessare tutta la cooperazione. Alcuni commentatori e una parte dell’opinione pubblica hanno sostenuto che sarebbe ormai in crisi l’intero sistema cooperativo trentino, che le cooperative si starebbero comportando come tutte le altre imprese che scaricano sui lavoratori le proprie difficoltà e che avrebbero perso la loro originalità, tradendo la finalità sociale affidata loro dalla Costituzione. E quindi di non meritare i benefici fiscali di cui godrebbero.
Ma, come spesso accade molte di queste critiche non sono sostenute da una adeguata analisi dei fatti. Con la conseguenza di aver dato vita a un dibattito poco costruttivo che rischia di impedire, invece che di agevolare, la ricerca delle soluzioni. Un pericolo che il Trentino non può permettersi di correre, vista la rilevanza economica e sociale del sistema cooperativo.
Mi permetto quindi di intervenire per fare chiarezza e sfatare tre falsi miti sulla cooperazione: quali sono realmente i benefici fiscali di cui godono le cooperative, come interpretare la funzione sociale della cooperazione, come la cooperazione risponde alla crisi nel breve e nel lungo termine.
Le cooperative davvero godono di ampi benefici fiscali?
La convinzione tanto radicata quanto priva di fondamento. Le cooperative hanno infatti gli stessi obblighi fiscali di tutte le altre imprese dello stesso settore, con un’unica eccezione: una riduzione – variabile a seconda del tipo di cooperativa – dell’ imposta sulle società (IRES), che però è un’imposta che genera flussi molto limitati. Questo spiega perché, se si va a calcolare direttamente dai bilanci la reale pressione fiscale che grava sulle imprese – cioè il rapporto tra la totalità dei flussi di risorse finanziarie che dalle imprese finiscono nel bilancio pubblico (dato dalla somma di Ires, Irap, Irpef e oneri sociali) e il valore aggiunto – si ottiene un risultato sorprendente. Analizzando quasi un milione di bilanci relativi al 2013, Euricse ha infatti dimostrato che ad avere la pressione fiscale più bassa sono le società per azioni (34,7%), seguite dalle cooperative (37,2%) e dalle società a responsabilità limitata (40,0%). E la spiegazione è semplice: cooperative e società a responsabilità limitata sono a più alta intensità di lavoro e in Italia la pressione fiscale maggiore non è sugli utili, ma sul lavoro.
Difendere l’occupazione è l’unica prova della funzione sociale delle cooperative?
Molto è stato detto e scritto anche sulla perdita della funzione sociale delle cooperative che si vedono costrette a ridurre il personale, lasciando così intendere che tale funzione si esaurisca nel creare e difendere l’occupazione e riguardi indistintamente tutte le cooperative. Questa interpretazione tuttavia non è del tutto corretta. Infatti la cooperativa è tenuta a coniugare funzione sociale e mutualità: deve cioè rispondere innanzitutto agli obiettivi che i soci le hanno assegnato e fornire loro i servizi previsti dal patto sociale. Di conseguenza la tutela del lavoro costituisce lo scopo sociale esclusivo delle sole cooperative di proprietà dei lavoratori. Tutte le altre forme di cooperazione hanno invece obiettivi diversi: dal benessere dei consumatori alla valorizzazione dei prodotti dei conferitori. In teoria quindi il rapporto delle cooperative diverse da quelle di produzione e lavoro con i propri lavoratori non deve essere necessariamente diverso da quello di qualsiasi altra impresa. Se lo è, è perché le cooperative sono comunque imprese di persone e quindi naturalmente più attente anche al benessere dei propri lavoratori. Ciò che ci si può aspettare dalle cooperative quindi è che la riduzione di occupazione si verifichi solo in situazioni estreme, dove l’equilibrio tra i diversi obiettivi non è più possibile e a prevalere deve essere quello sociale. E così è stato fino ad ora, nei pochi casi in cui la questione si è posta.
Le cooperative possono ammortizzare le conseguenze della crisi?
Infine, per capire i comportamenti recenti delle cooperative, è necessario ricordare che il modo in cui le imprese reagiscono ad una situazione di crisi non è lo stesso per tutte, ma dipende dagli obiettivi che esse perseguono e dal tipo di portatori di interesse che ne sono i proprietari. Le imprese di capitali perseguono in genere l’interesse di coloro che nell’impresa hanno investito: esse sono quindi gestite in modo da proteggere il valore del capitale e da garantire un rendimento almeno in linea con quello di mercato. Le imprese cooperative invece perseguono, a seconda della composizione della loro base sociale, interessi di proprietari diversi dagli investitori, in particolare dei lavoratori, dei consumatori/utenti o dei conferitori/produttori. Il profitto non rientra quindi tra gli obiettivi principali di queste imprese, ma ha una valenza prevalentemente strumentale, nel senso che viene solitamente realizzato nella misura in cui serve al rafforzamento dell’impresa.
Queste diversità di obiettivi hanno un impatto più evidente sui comportamenti delle imprese proprio nelle fasi di crisi. A fronte di una calo della domanda infatti l’impresa di capitali, per contenere i costi di produzione, tende a reagire riducendo l’offerta e quindi gli occupati o le ore lavorate. Di fronte alla stessa situazione, le cooperative tendono a reagire invece continuando a garantire i propri servizi ai soci, anche se ciò può comportare un aumento dei costi o una riduzione dei ricavi e quindi dei margini di profitto. Ne consegue che non solo le cooperative di lavoro, ma anche gran parte delle altre cooperative spesso mantengono, o addirittura incrementano i livelli di occupazione anche nelle fasi di crisi. Un tipo di reazione che è però sostenibile solo per un periodo di tempo limitato. Se la domanda riprende a crescere in tempi brevi la cooperativa può ritornare sui livelli di profitto desiderati e proseguire l’attività senza aver scaricato sulla collettività (cioè sui lavoratori, sui consumatori e sugli ammortizzatori sociali) i costi dell’aggiustamento. Ma se la recessione prosegue troppo a lungo, come sta succedendo, alla fine anche la cooperativa dovrà decidersi ad agire sui costi, ivi inclusi quelli di lavoro. Imprese cooperative e capitalistiche non tendono quindi a “reagire al mercato” nello stesso modo e con gli stessi tempi e il diverso modo di reagire delle cooperative non giustifica giudizi di inefficienza.
I lavori svolti da Euricse sui bilanci e sull’andamento dell’occupazione delle imprese italiane – e illustrati nei due ultimi rapporti sulla Cooperazione in Italia – hanno confermato ampiamente la diversità nei comportamenti delle imprese cooperative e di quelle capitali. Nel corso degli anni che vanno dal 2008 al 2014 sia il valore aggiunto che i redditi da lavoro delle cooperative italiane sono cresciuti a tassi significativi e decisamente superiori a quelli sia dell’economia nazionale che delle altre imprese. I profitti si sono invece drasticamente ridotti. Inoltre, mentre l’Italia perdeva più di un milione di occupati e i lavoratori dipendenti diminuivano di 500.000 unità (-5%), l’occupazione nel complesso delle cooperative aumentava di circa 80.000 unità.
Gli andamenti rilevati a livello nazionale si confermano anche per il Trentino. Mettendo a confronto le diverse fonti di informazione sull’andamento dell’occupazione si rileva che l’aumento del numero di occupati registrato in provincia anche negli anni della crisi, è dovuto, in parte rilevante se non esclusiva, al sistema delle imprese cooperative. Secondo i dati Inps le cooperative trentine dal 2008 al 2014 hanno aumentato le posizioni lavorative praticamente ogni anno fino ad arrivare ad un più 12,6% (+3,060 posizioni) sull’intero periodo. Un andamento simile mostrano le imprese controllate da cooperative, che hanno aumentato le proprie posizioni lavorative del 16,7%. Queste variazioni in aumento si confermano anche per le unità di lavoro equivalenti (Ula) che sono cresciute nel corso del periodo del 14,9% (+2.091 Ula in più) nelle cooperative e del 17,6% nelle imprese controllate. Secondo la nuova serie storica sull’occupazione iniziata dell’Istat nel 2011, e che – integrando fonti diverse – misura il numero di occupati in termini di posizioni lavorative totali, tra il 2011 e il 2014 gli occupati nelle imprese cooperative trentine sono passati da 17.208 a 19.840, segnando un aumento del 15%. Al contrario, gli occupati dipendenti totali sono passati da 164.948 a 160.849, con una diminuzione del 2,5%. In particolare, nel settore oggi nell’occhio del ciclone, quello del “commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazioni di autoveicoli e motocicli”, gli occupati nelle cooperative sono aumentati del 26,4% (da 3.253 a 4.113), mentre quelli totali sono diminuiti del 5,6%.
Credo che i dati e le riflessioni proposti in queste pagine, pur non esaustivi, siano sufficienti per invitare ad un dibattito sul presente e sul futuro della cooperazione più pacato e maturo di quello cui si è assistito in queste ultime settimane. I dati sull’andamento economico e occupazionale invitano in particolare a tenere in maggior conto del diverso modo con cui la forma cooperativa reagisce al ciclo economico e, più nello specifico, della rilevanza del suo contributo nel corso della crisi a sostegno dell’economia e dell’occupazione, oltre che al bilancio pubblico cui ha garantito entrate crescenti, facendo al contempo risparmiare uscite per ammortizzatori sociali. E di farlo soprattutto oggi, in una fase in cui anche una parte del sistema cooperativo deve fare i conti con una crisi troppo lunga per essere retta con le sue sole forze.
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